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Un salasso Concordato

«Sua Santità il Sommo Pontefice Pio IX e Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, hanno risoluto di stipulare un Trattato, nominando a tale effetto due Plenipotenziari, cioè, per parte di Sua Santità, Sua Eminenza Reverendissima il signor Cardinale Pietro Gasparri, Suo Segretario di Stato, e, per parte di Sua Maestà, Sua Eccellenza il signor Cavaliere Benito Mussolini, Primo Ministro e Capo del Governo».

COMINCIA CON QUESTE PAROLE, lettere maiuscole incluse, il Trattato tra Santa sede e l’Italia, primo atto dei Patti lateranensi – che comprendevano anche Concordato e Convenzione finanziaria –, firmati da Mussolini e dal cardinal Gasparri l’11 febbraio del 1929. Si chiudeva così la «questione romana», apertasi nel Risorgimento. Ma, al di là degli elementi storico-politici della «conciliazione» fra Stato e Chiesa, il Concordato presenta un serie di importanti ed onerosi aspetti economici che ancora oggi – a 88 anni dai Patti Lateranensi e a 33 dal «nuovo Concordato» del 1984 Craxi-Casaroli – gravano sull’Italia, sia come finanziamenti diretti alle istituzioni ecclesiastiche, sia come mancati introiti fiscali nelle casse dello Stato.

IL CAPITOLO PIÙ SOSTANZIOSO è rappresentato dall’otto per mille – quota di entrate fiscali di cui lo Stato si priva a vantaggio delle confessioni religiose –, il sistema che ha sostituito il vecchio assegno di congrua, l’erogazione dovuta come risarcimento per la fine del potere temporale papale con l’annessione di Roma al Regno d’Italia dopo la breccia di Porta Pia del 1870. Apparentemente trasparente perché sembra fondato sulla libera e consapevole scelta dei contribuenti, in realtà presenta un meccanismo in base al quale le quote non espresse – quelle dei cittadini che non firmano né per lo Stato né per nessuna delle confessioni religiose – non restano all’erario ma vengono ripartite in proporzione alle firme ottenute (meccanismo che ovviamente vale per tutti ma che, altrettanto ovviamente, premia il più forte).

E a firmare è una minoranza dei contribuenti (circa il 45%) che di fatto decide anche per la maggioranza, la cui quota viene comunque detratta e destinata.

Applicazione concreta: nel 2016 la Chiesa cattolica ha ottenuto l’80,91% delle preferenze di coloro che hanno firmato in una casella, corrispondente a circa il 35% del totale, conquistando – grazie ad una sorta di «premio di maggioranza» da far impallidire qualsiasi Italicum – i quattro quinti delle risorse, ovvero 1 miliardo e 18 milioni di euro di cui, nonostante le campagne pubblicitarie inducano a pensare che siano stati destinati soprattutto alla solidarietà, 399 milioni spesi per «esigenze di culto e pastorale» (39%), 350 milioni per il sostentamento del clero (35%) e 270 milioni per «interventi caritativi» (26%)...

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